American Horror Story 8×02 recensione – Michael come arriva colpisce
Succede che Michael colpisce ancora e va dal povero Gallant, rinchiuso in una stanza legato con corde e appeso come un salame. Il test si rivela un crudelometro, mio personalissimo modo di indicare un misuratore di crudeltà che lui evidentemente tiene in considerazione. Infatti, indizio non indifferente, una delle prime domande che pone a Gallant è “parlami della tua rabbia“. Ed è indicativo su quello che poi infatti farà nascere in lui.
Infatti, Langdon, tira fuori in Gallant tutta la rabbia che cova. Gli dice che è patetico, che cerca solo di essere amato, ma che è un debole. Poi le parole chiave, che faranno scattare qualcosa in lui. Gli rivela infatti che non era lui l’uomo in lattice e che, anzi, non avrebbe un rapporto con lui neanche se fosse l’ultimo uomo sulla terra e, brutalmente, sottolinea “e ne sono rimasti pochi”. Gallant si ritrova dopo, da solo, nel salotto, ad incassare il colpo, fino a che non vede di nuovo l’uomo in lattice. Lo segue in camera e quando si pensa nella grande rivelazione sotto la maschera, Gallant lo accoltella -anzi, lo inforbicia– fino a che non si rende conto che in realtà la persona che ha ucciso è proprio sua nonna. Un Michael del tutto soddisfatto, osserva la scena.
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Vorrei spendere però una parola sul poetic cinema che non so se sia stato volontario o meno ma che comunque per me è stata una perla. E cioè, il fatto che nel salotto, proprio nella puntata dedicata al personaggio di Evan Peters la canzone nel salotto sia cambiata e sia diventata Time in a bottle di Jim Croce. Ora, dove sta la genialata? Sta nel fatto che la canzone è la stessa che ascolta il personaggio di Quicksilver in X-Men: Giorni di un futuro passato nella sua epica immagine a rallenty. Forse non è stato fatto di proposito, io penso di sì, in ogni caso mi ha gasata come un coca cola come scena e volevo farlo notare.